Esegesi del Salmo 85

A cura di don Nicola Agnoli

Il salmo 85 può essere considerato nelle sue due parti: dopo il titolo (v. 1), la prima parte tra i versetti 2-8 presenta la novità del perdono divino, fonte di vita rinnovata per il popolo; la seconda parte tra i versetti 9-14 descrive più precisamente i frutti della riconciliazione tra Dio e l’umanità.

Il bene di Dio è il perdono. La prima parola del salmo esprime la realtà che rende possibile il perdono e una relazione rinnovata: il desiderio di bene da parte del Signore, più forte di ogni male o trasgressione compiuta dall’uomo. La traduzione italiana “sei stato buono” esprime un verbo ebraico che, più precisamente, comunica la decisa volontà da parte del Signore di trasmettere amore alla “sua terra” (v. 2). Egli si compiace nel realizzare il bene, per una terra che sente legata a sé da una relazione di bene fondamentalmente più forte di ogni genere di colpa. Sviluppando i contenuti attraverso il parallelismo, il testo chiarisce che la volontà di bene è riconosciuta nell’evento del ritorno del popolo di Giacobbe dall’esilio. Quello del Signore per il suo popolo non è certamente un amore platonico; al contrario esso si misura nei fatti della storia, pur con tutte le contraddizioni, che comunque vengono superate dalla sua volontà salvifica. Come certi salmi o inni sono conosciuti tradizionalmente per il loro incipit: il “Miserere” (Sal 51), il “De profundis” (Sal 130) o come i cantici del Nuovo Testamento del “Benedictus”, del “Magnificat”, o il “Nunc Dimittis”, così questo salmo potrebbe essere chiamato secondo questa prima parola: “Hai voluto il bene” (nella Vulgata: “Benedixisti Domine”). La prima parte del salmo si chiude al v. 8 proprio sullo stesso tema, esplicitando la bontà divina con le parole “la tua misericordia”, in parallelo con “la tua salvezza”[1].

Un reciproco ritorno. In questa prima parte si indugia particolarmente sulla radice verbale del “ritorno” (šûv), con le sue diverse sfumature di significato. Il ritorno è il viaggio del popolo dalla lontananza dell’esilio verso la patria; esso è anche un ritorno ad un destino di salvezza e alla dignità di popolo eletto; il ritorno esprime dunque la possibilità di recuperare la distanza da Dio e rinnovare la relazione di amore. La possibilità del ritorno storico del popolo dalla cattività babilonese è compresa dal salmista come effetto dell’iniziativa di perdono del Signore che ha sollevato il suo popolo dal peso della sua iniquità e ha coperto il suo peccato (v. 3); egli trattiene il suo furore e ritorna (šûv) dalla sua ira (v. 4). Il perdono divino è così delineato innanzitutto come un’iniziativa da parte del Signore, che, per così dire, si converte da sentimenti di sdegno (v. 5) e d’ira (v. 6). Si tratta di sentimenti umani, apparentemente troppo umani per essere riferiti a Dio; eppure, la Scrittura frequentemente usa queste caratteristiche del cuore umano per esprimere gli effetti della lontananza nei confronti del Signore: l’adirarsi di Dio è l’interpretazione metaforica del senso di vuoto e smarrimento nel cuore dell’uomo e degli eventi negativi della storia, conseguenze del peccato. Come comprendere questi sentimenti negativi del Signore rispetto alle affermazioni di bene che fanno da inclusione a questa prima parte del salmo? (vv. 2.8) Di fatto il testo sembra anche nella sua struttura affermare che non c’è ira divina senza una più forte e definitiva affermazione del suo perdono e della sua misericordia. La collera, l’ira, il furore divini sono raccolti nell’abbraccio del suo amore che sta al principio ed è il fine della relazione con lui. Quanto forte è la realtà del peccato, tanto più forte è l’esperienza dell’amore del Signore.

Il ritorno non è solo quello di Dio: egli torna dalla sua ira e tornerà sempre a dare vita (v. 7), ma proprio al centro del ritorno di Dio è lo stesso popolo che dovrà accordarsi all’iniziativa del Signore e a sua volta ritornare (šûv) a lui (v. 5). Questa reciprocità è ben sviluppata dalla metafora matrimoniale del messaggio profetico. Osea racconta e vive l’esperienza di una moglie infedele che si era prostituita con gli stranieri e i loro idoli, ma non potendo più trovare vita nei suoi amanti confessa: “Ritornerò al mio marito di prima, perché stavo meglio di adesso” (Os 2,9). Similmente Geremia dopo aver denunciato l’infedeltà del popolo afferma il rinnovato invito del Signore a ritornare a lui: “Ritorna, Israele ribelle, dice il Signore. Non ti mostrerò la faccia sdegnata, perché io sono pietoso” (Ger 3,12). La relazione è dunque rinnovata; si tratta della teologia della nuova alleanza[2], stabilita sul perdono del Signore e su un cuore umano guarito dalle ferite del peccato, attraverso una più piena conoscenza della misericordia di Dio.

Parola di pace. La seconda parte del salmo (vv. 9-14) presenta i frutti della ritrovata fedeltà tra il Signore e il suo popolo. Innanzitutto, il primo frutto è presentato dall’ascolto: “Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore” (v. 9). Il cuore dell’uomo è rivolto nuovamente a Dio e abitato dal desiderio di udire la sua voce e di nutrirsi della sua parola, come il desiderio dell’amata verso il suo amato, ben espresso nel Cantico: “Una voce! L’amato mio” (Ct 2,8). La voce del Signore parla di “pace (šālôm) per il suo popolo e per i suoi fedeli” ovvero, letteralmente nell’ebraico, “per coloro che non ritorneranno alla follia”. Ora la pace comunicata dal Signore esprime il senso della pienezza di vita, colma nella felicità materiale e spirituale, che si oppone precisamente alla follia, ovvero al vuoto dell’infedeltà nella relazione con il Signore. Nella prospettiva di un’alleanza rinnovata dall’iniziativa gratuita del perdono divino, l’uomo non è sottratto alla responsabilità di custodire responsabilmente il dono di tale pace.

L’accoglienza della parola di pace segna la ripresa della relazione di bene tra il Signore e la terra del suo popolo (v. 10), riprendendo così l’affermazione d’apertura (v. 2): essa diventa un’esperienza di salvezza per il credente, insieme alla percezione che la presenza gloriosa di Dio dimora stabilmente sulla terra. Per così dire, secondo il linguaggio della metafora matrimoniale, lo sposo e la sposa sono tornati sotto lo stesso tetto, il Signore dimora nuovamente nella storia del popolo.

I frutti del perdono divino. I versetti seguenti (vv. 11-12) esplicitano come si manifesta nella storia umana questo incontro di rinnovato amore tra il Signore e il suo popolo. Attraverso un’esposizione in parallelo sono accostati alcuni attributi divini, e nello stesso tempo umani, come l’amore (ḥesed), la fedeltà (’ĕmet), la giustizia (zedeq) e ancora la pace (šālôm). Attraverso il parallelismo non sono semplicemente accostati i valori elencati, piuttosto se ne esprime la stretta relazione e il reciproco chiarimento del significato di ciascuno: l’uno fa eco all’altro e nel loro insieme descrivono i frutti della fecondità della relazione con Dio. Un valore evoca l’altro: non c’è amore che non sia fedeltà, non c’è giustizia che non sia pace e viceversa.

È interessante notare come negli aggiornamenti della traduzione italiana questi termini siano stati resi con sfumature diverse. Innanzitutto, la parola ebraica ḥesed, tradotta nell’ultima versione CEI con “amore”, può essere di fatto resa insieme a tutte le sfumature della sua gamma semantica anche come “misericordia” e “grazia”; più precisamente il termine è comprensibile all’interno di una relazione di alleanza come amore benevolo e gratuito, un’offerta di grazia che previene ogni merito.

La parola ’ĕmet, tradotta con “verità”, esprime il senso della “fede”, come risposta al dono della grazia divina, fatta di riconoscimento dell’unico Dio, del suo amore di elezione e di custodia dei suoi precetti; per questo la fede assume la sfumatura della “fedeltà”, cioè la stabilità del cuore, e si apre al significato della “verità”, ovvero dell’autenticità del cuore nel rapporto con il Signore.

Anche il termine zedeq evoca molteplici sfumature e richiama gli altri valori ad esso associati. La “giustizia” si comprende nell’ambito delle relazioni comunitarie come lealtà e solidarietà; ancora la giustizia appartiene a chi è fedele alla parola di alleanza con Dio. Tuttavia, si comprende che essa è fondamentalmente una prerogativa del Signore che egli partecipa agli uomini come dono; in particolare nei Salmi, Dio è chiamato “giudice giusto” (Sal 9,9; 96,13; 98,9) e la sua giustizia è manifestata come fedeltà, misericordia e fondamentale volontà di salvezza per il popolo (Sal 40,10-11). La giustizia allora significa anche šālôm cioè “pienezza” e integrità di vita, dono e benedizione per chi resta nella relazione con Dio.

Nella presentazione di questi valori si può ulteriormente cogliere una progressione nel rapporto d’amore tra il Signore e il popolo. Precede l’incontro: “ḥesed e ’ĕmet si sono incontrati”, e seguono i baci: “zedeq e šālôm si sono baciati”; questa relazione amorosa diventerà feconda tanto che ’ĕmet germoglierà dalla terra e zedeq si affaccerà dal cielo”. Di fatto l’insieme di queste qualità descrive le caratteristiche dell’incontro divino-umano, in cui si può precisare che Dio viene incontro all’uomo nelle qualità di ḥesed (amore di grazia) e zedeq (giustizia salvifica) e l’uomo offre come risposta ’ĕmet (fedeltà autentica) e un’esistenza pacificata (šālôm). Cielo e terra sono così uniti in unico fecondo abbraccio: i due elementi estremi del cosmo esprimono una visione universalistica che riguarda di fatto tutta l’umanità, immagine di un mondo totalmente rinnovato (v. 12).

Una nuova nascita. La relazione con il Signore sfocia in una nascita: il dono di bene del Signore fa sì che la terra produca “il suo frutto” (v. 13). L’immagine non è limitatamente agricola, anzi la terra rappresenta il popolo d’Israele che porterà frutto nella sua discendenza; il figlio ha come padre il Signore e come madre la terra-popolo d’Israele. La conclusione del salmo (v. 14) è di difficile interpretazione, ma il contesto permette di capire che l’ultima ricorrenza della parola zedeq annuncia il nome di questo figlio: “Giustizia”. Così, nel complesso il salmo descrive una storia d’amore ritrovato tra il Signore e il suo popolo. Essa inizia con il perdono dopo il peccato e continua con la pace fatta con la sua sposa infedele, che è tornata da lui. Segue l’incontro e l’abbraccio e da questa unione, rigenerata dal perdono, nasce una nuova vita nella giustizia. Allora il Signore come un padre insegnerà al figlio a camminare (cf. Os 11,3), guardandogli le spalle, cosicché: “Giustizia camminerà davanti a lui”, lo guiderà e “metterà i suoi passi sulla via” (v. 14)[3].

Nei primi secoli del Cristianesimo il salmo è stato interpretato come annuncio messianico del mistero del Natale ed è stato facile riconoscere in questo “frutto” la Giustizia di Dio, incarnata in Gesù Cristo.

[1] Cf. R. Meynet, “Il salmo 85, salmo dell’Avvento”, in: Civiltà Cattolica (2010) IV, pp. 341-352.

[2] Cf. Meynet, “Il salmo 85”, p. 344.

[3] Cf. Meynet, “Il salmo 85”, p. 348.

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